15 dicembre – di Mazza, Pepe, Pozzoli, Testori, Zani (Gruppo 7B).
Tratto dalla ricerca: “Tweetment Effects on the tweeted: Experimentally Reducing Racist Harrasment” di Kevin Munger.
Il boom tecnologico e la nuova era dei social hanno portato con se solo diffidenza ed ostilità? Questo articolo mette in luce ricerche. Comprovanti la falsità delle tesi riguardanti l’incremento della violenza Sul web favorita dall’anonimato.
Violenza sul web: verità o bufala?
Nella società attuale internet è diventata la via principale per esprimere le proprie idee. Tale canale ha provocato la nascita di varie correnti di pensiero che descrivono i social network come un mezzo che favorisce la violenza. Questo luogo comune è stato presto indebolito dalla presenza di svariate ricerche che hanno dimostrato il contrario. Vanno considerati gli aspetti positivi dei social, i quali rappresentano una straordinaria opportunità di informazione e comunicazione in particolare sono facilitatori della socializzazione attraverso il contatto in tempo reale. Tuttavia i social media, nonostante tutti gli aspetti positivi sono considerate piattaforme che alimentano la violenza e diffamazione rispetto al mondo reale, in particolare grazie alla possibilità di nascondersi dietro l’utilizzo dell’anonimato.
Tramite alcuni esperimenti è stato dimostrato, tuttavia, che sostenere che l’anonimato sul web fomenti la violenza è un errore, in quanto questo non tiene conto della soggettività dell’individuo, e infatti i risultati evidenziano che gli utenti più violenti sono generalmente coloro che si presentano con la loro reale identità.
L’importanza di chiamarsi anonimo
La New York University nel 2016 ha condotto la ricerca,“Tweetment Effects on the tweeted: Experimentally Reducing Racist Harrasment” di Kevin Munger, riguardante il tema della violenza online.
Il ricercatore Kevin Munger ha cercato di confutare la tesi secondo cui l’anonimato sul web favorisca l’aggressività degli utenti. I risultati hanno evidenziato quanto l’anonimato non fosse una variabile fondamentale per incitare alla violenza. La ricerca è stata condotta sulla famosa piattaforma social Twitter, esaminando un campione scelto tra un range di persone aventi una regolare inclinazione ad atteggiamenti offensivi. Questo campione, che comprende 250 utenti (anonimi e non), viene sottoposto a un test che consiste in un commento di risposta a tweet offensivi degli utenti, da parte del ricercatore che utilizza account ‘bot’. Per la realizzazione dell’esperimento il ricercatore ha individuato, grazie ad una serie di algoritmi, i soggetti che negli ultimi 6 mesi di Tweet avevano utilizzato un elevato numero di termini razzisti e violenti.
Ha applicato inoltre delle restrizioni che escludevano dal campione tweet ironici e non intenzionati ad offendere, e successivamente ha assegnato diversi gradi di anonimità agli utenti (da 0 a 2) basandosi sulla veridicità del nome utente e dell’immagine profilo.
Il campione selezionato è stato quindi sottoposto al cosiddetto “trattamento”, che consiste in una risposta sanzionatoria da parte del bot a uno dei tweet offensivi.
Ovviamente Munger ha fatto in modo che l’account bot fosse il più “umano” possibile, in modo da evitare sospetti da parte degli utenti incriminati.
Inoltre è stata testata l’autorità che diversi individui esercitano sugli utenti, grazie alla creazione di account bot diversi nel colore della pelle e nel numero di follower.
La ricerca, sviluppatasi in un lasso di tempo di due mesi, ha evidenziato che il livello di abuso verbale dopo il commento sanzionatorio del bot è diminuito molto di più tra gli utenti anonimi rispetto a quelli con un profilo reale.
A conferma di questa tesi vi è anche un altro esperimento condotto dall’Università di Zurigo nel 2016 e pubblicato sulla famosa rivista ‘ploS One’.
Questa ricerca, basata sullo studio di più di 532.000 commenti a pubblicazioni online tra il 2010 e il 2013 sulla piattaforma social tedesca ‘Opepetition’, afferma che solo il 29,2% dei commentatori analizzati aveva scelto l’anonimato.
I sociologi Lea Staher e Katja Rost, insieme all’economista Bruno S. Frey, hanno dimostrato che i messaggi molesti e ingiuriosi sono molto più efficaci se chi li posta si identifica, piuttosto che un utente anonimo, il quale si espone a meno rischi di concrete sanzioni, e che sarà tendenzialmente considerato meno credibile.
Il cambiamento ha invaso le nostre vite
Entrambi gli studi, dimostrano quanto l’anonimato e l’uso di piattaforme online non sia necessariamente causa di violenza verbale e cyberbullismo.
La società attuale è segnata dalla rivoluzione tecnologica, non è novità perciò che ogni cambiamento delle abitudini delle persone porti con sé opinioni negative e problemi sociali.
“Il cambiamento è il processo con il quale il futuro invade le nostre vite”. Con questa frase, Alvin Toffler, ci offre un importante spunto sul quale riflettere.
Come ogni grande novità, le nuove tecnologie hanno iniziato ad essere parte integrante della nostra vita quotidiana. La tanta attenzione mediatica verso questo fenomeno è dovuta al fatto che attraverso il web ci si rivolge ad un pubblico più ampio e con la totale libertà di espressione.
Tuttavia il web può essere considerato lo specchio della vita reale, e come tale anche la violenza viene riflessa in egual maniera.
Dunque così come nella vita reale, chi commette un reato viene sanzionato dalle leggi, così anche sul web, il governo ha imposto ad alcuni siti, (come ad esempio Facebook), in vista di un commento negativo o offensivo di varie genere, di offrire agli utenti la possibilità di denunciare colui che ha oltraggiato altri utenti.